Il Rinascimento romano

   
   

Alla metà del XV secolo non sembrava che Roma potesse divenire uno dei maggiori poli del Rinascimento italiano; solo con la conclusione del Concilio di Basilea il papato potè praticare, con Niccolò V, una politica più attiva e restituire alla sua capitale qualche lustro. Quest’ultimo diede inizio alla demolizione della vecchia basilica di San Pietro e negli Statuti dei maestri di strada gettò le basi di un nuovo urbanesimo.

Durante questo periodo l’Umanesimo e le correnti artistiche del Rinascimento avevano conosciuto brillanti sviluppi a Firenze e Venezia, o in alcune corti principesche come Mantova, Urbino o Ferrara. Sulla scorta di questi esempi, i papi della seconda metà del XV secolo favorirono le lettere e le arti secondo il nuovo gusto e cercarono di rendere più bella la città ricorrendo ad artisti e letterati provenienti dai centri più avanzati.

Bisogna inoltre ricordare la fondazione della Biblioteca Vaticana, voluta da Sisto IV, destinata ad accogliere e proteggere la collezione di manoscritti che i pontefici avevano cominciato ad accumulare durante il periodo avignonese: vi si traducevano in latino diversi testi di patristica greca. Soprattutto predicazioni pubbliche, discorsi dei papi, elogi funebri dei cardinali furono le occasioni per riallacciarsi alla tradizione della retorica antica.

Si assistette allora allo sviluppo di una vera cultura della persuasione, basata sulla riabilitazione della topica, scienza dei luoghi comuni e del pensiero discorsivo, che concedeva un grande spazio ai simboli visivi e alle tecniche mnemoniche, conformemente alle lezioni di Cicerone e di Quintiliano.

Nel XV secolo e all’inizio del XVI gli uomini di cultura, appartenenti o meno al clero, erano stati sensibilizzati a una certa convergenza, anzi a una coincidenza, tra la saggezza antica e il messaggio cristiano: il primato della vita contemplativa sulla vita attiva, la necessità di sottrarre l’essere umano all’influenza delle passioni, l’importanza della vita morale, erano tutti punti in comune .

Ma non tardarono a manifestarsi disaccordi tra la fede e le nuove idee: l’accento che gli umanisti ponevano sull’idea di natura e sulla bontà di quest’ultima poteva condurre a mettere in crisi le nozioni di peccato e di ascetismo, cosi importanti nella spiritualità cristiana. La cultura, che doveva preparare l’uomo ad agire e a essere utile alla comunità, relativizzava il valore della separazione dal mondo, cara alla tradizione monastica. Di conseguenza, l’Umanesimo non riscosse mai il consenso unanime da parte della Chiesa, né tantomeno quello della società contemporanea.

Tuttavia gli elementi d’intesa prevalsero largamente e i papi del tempo non rifiutarono il concorso di uomini che vedevano in Roma la sede della Chiesa e un faro di civiltà.

La religione cristiana e la vera cultura avevano tutto l’interesse a sostenersi mutualmente, poiché condividevano la volontà di promuovere Roma come centro del mondo cristiano e della Repubblica delle Lettere.

Con i papi dell’ultimo scorcio del XV secolo e dell’inizio del XVI, in particolare Giulio II, Leone X e Clemente VII, la ricerca di una autentica convergenza tra la saggezza antica e la religione cristiana andava ancora oltre, insieme alla volontà di congiungere la letteratura profana alla devozione.

Clemente VII

Era stato già sottolineato da numerosi autori il legame di parentela che esisteva tra lo svago letterario classico e la vita eremitica cristiana condotta in una prospettiva umanistica. San Girolamo incarnava bene questo ideale. Nel XV secolo questo programma d’ascesi spirituale e letteraria basata sulla fatiche dello spirito fu ripreso e ampliato da alcuni intellettuali e uomini di Chiesa.

La speranza di un rinnovamento della Chiesa attraverso l’azione congiunta della letterature sacra e profana che animava allora alcuni ambienti della curia romana, e che condusse i suoi sostenitori a opporsi fermamente ai tentativi di riforma profetica e apocalittica promossi da Savonarola a Firenze, si coglie più facilmente se si riflette sul prevalere in filosofia, nella stessa epoca e almeno in Italia, di una metafisica della luce e della visione d’ispirazione neoplatonica foggiata da Marsilio Ficino.

L’impegno dei papi per fare di Roma la capitale della religiosità, dell’eleganza letteraria e delle arti rinascenti, finalmente riconciliate tra loro per riflettere sulla terra la gloria di Dio; la sua più bella espressione è certamente la volta della cappella Sistina, dove Michelangelo rappresentò la triplice rivelazione divina trasmessa agli uomini dai profeti, dagli apostoli e dalle sibille, rappresentanti delle intuizioni precristiane.

Dagli ultimi decenni del XV secolo i tentativi dei pontefici per migliorare il decoro della città e della propria corte si collocano in questa stessa prospettiva. Per l’anno santo del 1475 Sisto IV fece costruire ponte Sisto, il primo ponte edificato a Roma dal Laterano al Campidoglio alcune statue antiche.

Nel 1537 Paolo III vi aggiunse la statua equestre di Marco Aurelio, installata al centro ella piazza e che, fino ad allora, aveva troneggiato vicino al vecchi palazzo pontificio. Il gesto del pontefice mirava a stabilire una sorta di museo della grandezza romana del passato, dedicato soprattutto ai visitatori illustri, nelle vicinanze del palazzo dei Conservatori. Cominciarono allora a moltiplicarsi le iscrizioni solenni su larghe lastre di marmo che celebravano gli interventi dei pontefici nel campo della costruzione e del restauro, inaugurando cosi una tradizione che è continuata fino ai nostri giorni.

All’inizio del XVI secolo Roma rischiava di essere marginalizzata nel nuovo quadro geopolitico che stava disegnandosi. Roma era superata da altre città italiane e contava poco più di 100000 abitanti, mentre Firenze, Milano, Napoli e Venezia ne avevano almeno il doppio. In questo contesto, il rischio di vedere la città provincializzarsi o ridursi semplicemente al ruolo di capitale dello Stato pontificio, ossia di un principato di medie dimensioni, era reale; ma Roma possedeva potenzialità straordinarie. Decidendo di ricostruire la basilica di San Pietro, Giulio II iniziò a trasformare Roma in una nuova Gerusalemme in terra latina, secondo un processo che aveva avuto inizio qualche anno prima in Toscana e Lombardia con la creazione dei primi “santi monti” francescani.

All’apogeo della Roma pontificia e umanistica, raggiunto ai tempi di Giulio II e Leone X, avrebbe fatto seguito una crisi tanto più profonda in quanto essa rimetteva in discussione non solo il potere temporale dei papi, come era già accaduto in precedenza da parte di numerosi movimenti contestatari, ma le fondamenta stesse dell’istituzione ecclesiastica e la fede dei cristiani nel destino di Roma.

Fin dal XII secolo, numerosi autori avevano denunciato il lusso della curia o l’arroganza e la cupidigia dei curialisti; nel XV secolo l’animosità contro Roma crebbe ulteriormente.

Alcuni anni dopo la riforma luterana, Roma subisce un altro colpo inferto dall’imperatore Carlo V. Il sacco di Roma del 1527, opera delle truppe del connestabile di Borbone e, in particolare, dei lanzichenecchi tedeschi lanciati all’assalto della città da un sovrano desideroso di punire un papato che si ostinava a voler condurre una politica italiana autonoma, fu un evento devastatore sia per le rovine che si lasciò dietro che per le ripercussioni che ebbe nel mondo cristiano; la gravità del sacco fu anche dovuta alla concomitanza con un momento di crisi dell’Umanesimo.

Il sacco del 1527, con il suo corteo di violenze e rovine, segna la disfatta definitiva di un’italianità pensata come la resurrezione o la continuazione della romanità antica.

Erasmo da Rotterdam non manifesta ostilità di principio nei confronti dell’impero, ma sottolinea come la carica di sovrano universale sia troppo pesante per un solo uomo: il vero monarca del mondo è Cristo e se i principi si sottomettessero alla sua legge le cose e le genti prospererebbero; suggerisce di trasferire ai principi cristiani le prerogative imperiali nei loro regni. Machiavelli, nella sua Istoria fiorentina, vede addirittura nella Chiesa romana la causa principale della debolezza e della mancanza di unione dell’Italia.

Alla fine del XVI secolo l’eredità di Roma fu rimessa in causa, e il processo si estese anche a quello che sembrava costituirne il cuore e lo zoccolo duro: i suoi monumenti antichi.

Montagne mette brutalmente fine all’approccio umanistico verso Roma inaugurato da Petrarca e proseguito da Alberti e Palladio. Questo non gli impediva di appassionarsi alla storia romana e di esaltare la grandezza di Roma. Tuttavia, egli non riteneva che questa fosse nei suoi monumenti, ma nelle sue leggi e nelle sue istituzioni e soprattutto nei suoi grandi uomini.

Roma cerca sempre di sottomettere la natura alla città e il corpo umano allo stato: la tensione che scaturisce da questo sforzo è nello stesso momento ragione della sua grandezza e punto debole dei suoi eroi, quello che, in ultima analisi, causa la loro rovina.

Una delle costanti della storia di Roma è la sua capacità di rinascere periodicamente dalle proprie ceneri, come la fenice e di risollevarsi dopo aver subito i peggiori oltraggi.

Con lo strappo della Riforma protestante Roma non poteva più pretendere di costituire la forma consensuale della società occidentale. Sceglie allora di diventare la capitale del mondo cattolico, rientrandosi su un ruolo che paradossalmente aveva assunto solo episodicamente: quello di città santa, modello di fervore religioso.

Paolo III e Ignazio di Loyola

A partire dal pontificato di Paolo III Farnese, il papato riprende e sviluppa per più di un secolo quella politica di splendore monumentale che aveva inaugurato a Roma nell’ultimo trentennio del quattrocento. La Chiesa avrebbe utilizzato strategicamente l’arte e il bello per affermare a livello simbolico un primato che non le apparteneva più nei fatti, sia in Italia che nell’Europa cristiana. Parallelamente papa Farnese, sotto il quale si aprì il Concilio di Trento, tentò di riformare il sistema cattolico sconvolto dalla Riforma protestante; fu anche colui con il quale prese inizio un movimento di riconquista religiosa che si chiamava un tempo controriforma e che oggi è più giustamente detto Riforma cattolica.

Con Paolo III la Roma moderna afferma definitivamente la sua superiorità sulla Roma antica; più precisamente, l’Alma Roma, celebrata dalla medaglia che fu incisa per il giubileo del 1500, costituiva ormai un insieme omogeneo dove alle rovine antiche si affiancavano monumenti nuovi, la cui architettura e il cui stile ricorrevano a un linguaggio uniformemente classico: facciate ornate da frontoni triangolari, lesene, ordini sovrapposti, ecc.

La città con le sue nuove strade rettilinee e le larghe piazze, prese l’aspetto di una vera capitale, non solo quella degli Stati Pontifici, che tenevano insieme grazie alla sua attività, ma anche quella di tutto il mondo cattolico. Alla fine del secolo Sisto V fece aprire alcune belle strade, come via Sistina, per stabilire relazioni facili e leggibili nel paesaggio urbano tra le basiliche maggiori, e  questo avrebbe determinato un ulteriore sviluppo urbanistico. Cosi la città, che si voleva assolutamente moderna, si assesta secondo un nuovo ordine urbanistico: attraverso la creazione di una struttura di prestigio nel campo architettonico e artistico, Roma punta sulla sua immagine e si offre come spettacolo ai visitatori per sconfiggere i suoi rivali.

I tentativi di rendere Roma più bella coincisero con una volontà di rigenerazione morale e spirituale, incarnata da uomini come Sant’Ignazio da Loyola, che nel 1540 fondò la Società di Gesù, ossia l’ordine dei gesuiti, che sarebbe presto diventato uno dei principali strumenti di riconquista religiosa promossa dal papato, o San Filippo Neri, il fondatore dell’Oratorio.

I papi del tempo cercarono di fare di Roma una città esemplare per la religiosità dei suoi abitanti, un modello che potesse essere utile per la riforma spirituale e morale dell’Europa. È in questa prospettiva che si inserisce la riscoperta della Roma cristiana dalle origini, quella “Roma sotterranea” alla quale ai primi  del XVII secolo Antonio Bosio consacrò un’opera fondamentale.

Roma, città dei martiri e necropoli sacra, opponeva ai suoi detrattori l’esempio luminoso dei servitori di Dio di cui conservava le reliquie perpetuandone la testimonianza. Di fatto, questo nuovo atteggiamento non era straneo alle polemiche e alle violentissime accuse lanciate contro Roma dai protestanti che, in ultima istanza, miravano a dimostrare come la Chiesa cattolica avesse tradito il messaggio evangelico e fosse precipitata nell’idolatria papista. Tra il pontificato di Pio IV e quello di Sisto V, il papato si impegnò profondamente per sconfiggere questa leggenda oscura; furono prese misure rigorose contro l’immoralità che regnava all’interno della curia e la condotta scandalosa di alcuni membri del clero, e per limitare la prostituzione e ridurla alla semi-clandestinità.

Parallelamente si assistette a un grande sviluppo dell’arte oratoria che esaltava Roma attraverso l’elogio dei papi e delle loro opere, ma anche del suo glorioso passato, in modo da ricreare un’immagine positiva della città e della Chiesa romana, cosi come la cornice architettonica di cui si ornava la città doveva far percepire al visitatore o al pellegrino una vibrazione d’eternità nella fragilità del tempo.

Negli stessi anni, si operò nelle arti plastiche una nuova sintesi tra l’eredità antica, incessantemente arricchita e sempre più profondamente conosciuta, e alcune correnti artistiche contemporanee che si rifacevano a Raffaello. Si afferma infatti a Roma una concezione dell’arte che cercava di imitare la natura e rivaleggiare con essa. La natura era per questi artisti il mondo sensibile e l’ideale estetico dell’antichità, incarnato soprattutto dalle statue, presenti a Roma in grande numero, e dalle “anticaglie” - pietre istoriate, monete e medaglie – che i cardinali e i grandi dell’epoca accumulavano nei loro gabinetti. Il classicismo si ispira alle cose della natura per le forme e i colori e punta a riflettere la varietà delle sensazioni umane attraverso le azioni, ma elimina gli elementi privi di grazia o troppo realisti e ricompone il tutto in un ordine e con una chiarezza che si vogliono universali e riflettono nella figura umana, protagonista della rappresentazione, con i suoi pensieri e i suoi drammi. In questa prospettiva, l’arte, concentrato di valori formali e morali, rappresenta una natura corretta, una visione idealizzata del mondo, frutto di una elaborazione intellettuale delle capricciose e variabili composizioni del mondo sensibile.

Le stanze di S.Ignazio (casa Professa dei Gesuiti)
   

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Questa è l’epoca in cui la Roma antica, cessando di schiacciare la Roma moderna, si fonde in essa con una sempre maggior discrezione, sia per le ampie demolizioni, in particolare quelle imputabili ai papi Barberini, sia soprattutto in seguito a un riassetto sistematico dello spazio che da Sisto V a Paolo V ricompose gli elementi del paesaggio urbano secondo un piano che faceva di Roma una città spettacolo. Oramai si doveva illustrare la continuità della sua storia, che rimanda a quella della Chiesa romana, indefettibile ed eterna, e alla finalità cristiana della città. Tra la fine del XVI secolo e quella del XVII il programma urbanistico e architettonico dei papi propose un sistema di valori rigorosi, capace di sradicare tutti i residui paganizzanti dell’antichità utilizzandone i procedimenti tecnici e le risorse artistiche per celebrare i fasti della Chiesa. È l’epoca in cui Roma si copre di obelischi, recuperati nei circhi e innalzati in grandi piazze,

come quella di San Pietro o di San Giovanni in Laterano, dove la croce che li sormonta attesta la subordinazione del decoro antico al nuovo ordine visivi, volto a celebrare il trionfo della religione cattolica.

   
         
         
   

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